Fyrnask – “VII – Kenoma” (2021)

Artist: Fyrnask
Title: VII – Kenoma
Label: Ván Records
Year: 2021
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Hrævaþefr”
2. “Sjóðandi Blóð”
3. “Niðamyrkr”
4. “Helreginn”
5. “Dauðvána”
6. “Blótguð”

“Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine; nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza. […] Lo so ciò che dovrebbero fare: dovrebbero intagliare nella loro paura un’immagine alla quale dare poi il nome di Dio.”

Come può essere anche solo plausibile provare ad accostare l’esperienza umana, fin troppo tangibile, di dolore ed abuso nell’onnipotenza imperscrutabile con la verosimile concezione di un Dio giusto ed ipoteticamente gentile, persino misericordioso, che ama tutte le esistenze da lui create ed è compassionevole con esse? Perché mai una divinità, ad ogni cosa infinitamente superiore per natura, ma che al contempo incondizionatamente ama l’imperfezione dei suoi abomini terreni ed ultraterreni al pari, dovrebbe poi finire per farli sadisticamente soffrire, nessuno escluso, atroci passioni lungo l’arduo cammino di una vita senza la prospettiva certa di salvezza? Dalla teologia cosiddetta naturale e razionale alla teodicea orientale – da Sant’Agostino D’Ippona a Fariduddin ‘Attar, colui che nelle scritture persiane avrebbe secondo gli stessi colleghi sufi attraversato tutte le sette città dell’Amore mentre noi altri comuni esseri viventi, anche i più dotatamente sensibili, non siamo più in là che alla prima curva al massimo, al primo incrocio della prima strada nella prima delle città; dall’estremo Ovest all’inarrivabile Est il terrore di Dio e la manifestazione del male nel mondo sono per qualcuno la fattuale prova stessa dell’esistenza della divinità. Per altri, piuttosto, insieme, il motivo primo per metterla in discussione e sfidarne i dogmi temporali in una metaforica partita a scacchi, prendendo tempo per attirarne tracotanti -se esiste- la vendetta più furibonda e le sue inimmaginabili conseguenze.

Il logo della band

Nel nulla, nel vuoto dell’essenza, nel sacrificio materiale all’estremo limitare dell’esistenza che alla divinità connette ed avvicina in quanto frutto di scambio tra un bene del mondo fisico di cui viene fatta rinuncia (nonché negatone il culto) per possedere quello del metafisico, ha la sostanza di un pensiero, di un apprendimento tutto spirituale che sgorga dal cuore più che dall’intelletto quello dell’anacoreta pellegrino e cantore di sermoni di fuoco sulla cima del monte vulcanico “Fórn”, e che -ora ferito e proprio per questo forte delle profondità trovate nell’operato lirico di ‘Attar e del suo “Musibatname”, dell’incombenza che diventa rivolta mistica- si inserisce nella linea nobile di tutti quei filosofi, teologi, poeti e più spesso ancora ferventi laici i quali hanno messo in discussione dal profondo la loro immagine di Dio esecrandola alla luce di una realtà di afflizione e tribolo. Da qui ripartono i Fyrnask, rinnovati per “VII – Kenoma” nel collettivo fluido del mastermind Fyrnd accompagnato da Alghol, Rune, Fhez ed Exord nell’atto di ribellarsi alla sofferenza iniettata nel corpo insieme alla vita che sta alla base della purificazione dell’anima: da un’immagine osservata in prima persona dal profeta eremita narratore di malattia, di malessere fisico, di freddo e fiamma, d’un migliaio di gelide stelle e d’un migliaio di enormi fuochi, giunto al punto centrale del suo viaggio all’interno dell’idea di Dio e dal silenzio di quest’ultimo dolorosamente abbandonato, tradito, scoprendo l’esistenza di due mondi speculari nel loro risveglio e nel dhyāna, nella visione del κένωμα; quella che gli si svela giungendo, tramite sette graduali stadi di coscienza corredati dall’ottavo grande finale, al cospetto della perdita metafisica del disobbediente arconte caduto Iblīs, Shaytan, la luciferina figura che sulle rovine del suo perduto impero si dispera e cerca una nuova via tra bene e male sfumanti, sfocantisi e mescolati nel settimo simbolico passo del cenobita verso l’eternità.
Proprio a questo l’assurdo valore compositivo del quarto full-length marchiato Fyrnask fa appello: guardare dentro alla propria natura materica e poterne provare ribrezzo. Questo viene demarcato quale il primo passo verso la riappropriazione di una certa ambiguità spirituale ancor prima che morale, motivo per cui sono la sensibilità, l’intelligenza e la collaborazione dell’ascoltatore con l’artista ad essere simpateticamente richieste al fine di poter realmente udire la lugubre canzone di Iblīs, il triste lamento dell’abisso (der Gesang der Tiefe), e superarne l’incarnazione musicale della sofferenza che è, di un cuore ferito da una lesione incurabile, abbandonato al vento, bandito – non più dipendente dalle parole né dalle lettere scritte in quattro sacri versi con sangue su pergamena, ma che punta direttamente alla mente e al cuore divenuti cosa sola nell’uomo; e in ciò, “Kenoma” è un engramma spietato. Un medesimo evento espanso, fatto di immagini, di suoni, azioni, parole, emozioni; riformulando, un trauma mentale finemente ricostruito, un frammento di memoria che diventa reviviscenza musicale di un ricordo che è cambiamento ecforico da quel momento permanente nel sistema nervoso, una traccia mnemonica resa universale e plasmata affinché possa diventare guida esegetica per l’ascoltatore alla scoperta dei suoi universi allegorici.

Fyrnd

“Fórn” è il crocevia di passaggio tra questi nella sua rarefatta sommità di monte, rete neurale tra l’esistenza ed il concetto di una profonda avversione all’imperfezione inaccettabile di quest’ultima, nel mezzo dei due primordiali mondi riflessi l’uno nella grandezza dell’altro e divenuti dolorosamente visibili ora, intrapresa la seconda delle due strade verso il basso; qui mille altri differenti creati vengono svegliati e salmodiati in lingue infuocate tramite una profezia di ghiaccio, di svuotamento, di “Kenoma”: dal canto suo, una processione d’immagini come sangue che ribolle e scorre surreale quale Apocalisse giù dalle pendici di quell’altezza di partenza, fotogrammi di maledizioni e congiure che condannino con la loro forza a morte il mondo del concreto nel sacrificio della materia, in suoni arcaici, monacali (trascendenti quelli corali sul finire di “Hrævaþefr”, forti del sincretismo religioso di suggestioni bibliche in “Helreginn”, ma assolutamente non soltanto), in musica Dark-Ambient dalle frequenze e fattezze rituali integrata come cosa sola col Black Metal, costruzioni chitarristiche dronescaping nei crescendo innodici (“Dauðvána” soprattutto, ma fondamentalmente ovunque) e nozioni World Music approcciate nell’unione impura di voci classiche, vocalismi strazianti, imprevisti strumenti tradizionali fuori dall’ordinario (“Blótguð”) e sintetizzazione ecumenica che potrà anche partire -in ambito pesante- da Neurosis, The Angelic Process, ma che qui finisce in territori alieni letteralmente a chiunque. L’impiego dell’intero parco elettroacustico a disposizione dell’uomo prende dunque le fortunate mosse dall’operato illustre del precedente album ma diventa ancor più organico, spaventoso, gli ottoni sbucano selezionati e terrificanti da mostruose traiettorie atmosferiche che si dilatano a dismisura, da scansioni ritmiche tribali, e l’incontro iniziale con colui che tutto sacrifica in ascesso di ὕβρις è autentica visione dell’aldilà in un’angoscia che guadagna sovranità assoluta. L’incipit lento di “Hrævaþefr” strappa l’ascoltatore dal suo mondo terreno e lo getta altrove con soluzioni compositive trascinanti all’estremo limite del concepibile nella costruzione di “Sjóðandi Blóð” – la forma dei primi due lunghissimi brani è davvero ultraterrena, inimmaginabile senza ascolto, i richiami di terrore ai Darkspace sfumano in sensazioni d’arkhâios totalmente uniche ed appartenenti al solo reame dei Fyrnask dove gli attacchi sono tra le cose più violente e tremende mai create in ambito Black Metal, mentre i processi di composizione anti-climatica risvegliano in un mare d’ossidiana solida come ghiaccio e plasma coagulato (il sangue dei morti, dei cherubini, rappreso e mescolato ad un’anima ancora fatta di terra) nel fetore d’incenso e sacralità scomposta, in mezzo ad enormi luci in una tempesta di cenere e fuliggine solidificata.
Solo quando il cuore diventa una luna piena nella pesantezza della notte, un faro interiore guida però la discesa del pellegrino, homo viator di boschiana immagine, sotto alle acque del concreto amare come fiele di una terra giunta al suo tramonto, verso il suo centro nella cui caverna due serpi orribili copulano e si avvinghiano in un mistico trono di code; allo stesso modo chitarre si aggrappano all’anima nelle loro deformazioni impalpabili come spirito ma devastanti come palazzi che crollano su loro stessi e nel disastro lasciano intravedere il magma che lussureggiante si cristallizza nei paesaggi da incubo di “Niðamyrkr”, dove piombo e ferro fusi scorrono in gola e i Fyrnask si fanno prossimi a territori spaventosamente Ascension già sporcati di Morbid Angel, ne succhiano il sangue fetido ma lo fanno rigonfi di un terrore tutto squisitamente loro in grado di battere entrambi allo stesso gioco, correndo verso lo squisito crescendo emotivo finale che strappa ancora una volta l’operato da qualunque paragone – nonostante, quando questo sia fattibile, venga sempre vinto. “Helreginn” lo esplicita del resto senza veli, smascherando ogni forma d’inconsistente antinomia tra bianco e nero: dove i cadaveri riposano inquieti, nel profondo sdegno dei viventi, dalla tomba del precedente da cui escono fiamme per il tempio di rinuncia, la voce impazzisce disperata, strappata al mezzo della coscienza perché messa dinnanzi ad un’immanenza troppo grossa per essere spiegata; ogni pena di un inverno che è qui, tra lo zen e l’euforia dolorosa del portare fuori, dell’asportare e del sacrificare alla corrente una parte materiale di sé – e nel biasimo dei morti, nella distensiva vibrazione bassa di un idiofono, invece, una rabbia cieca e senza fine, un dolore ancor più grande. “Dauðvána” è dunque l’oscurità dove le stelle scompaiono una volta per tutte e le anime bruciano, in cui se possibile ci si rialza differenti e trasmutati per sempre nel dramma del quesito, della domanda e della trascendenza innanzi al dio del sacrificio che in sesta posizione di disco tutto richiede indietro dal suo regno di eternità, con occhi di mistero e fosca pece. È quindi la salita nel silenzio, punto massimo contornato di dolcezza dopo che i pezzi si sono susseguiti quali un capolavoro di stile, di riuscita ed emozione dopo l’altro, atmosferici senza la minima ripetizione, in ciò quasi essenziali nonostante siano rigogliosi. È un cerchio che è illuminazione, aperto perché parte di qualcosa di più grande ancora – della morte, del timore della morte e di Dio da cui, secondo un pungente Franz Rosenzweig, prende inizio e si eleva il tentativo di conoscenza, non della risposta bensì di formulazione della domanda più cruciale. Qui l’asceta è bagnato dallo splendore della folgorazione ed intraprende finalmente la seconda metà del suo viaggio all’interno della divinità, lasciando aperta la storia a qualunque sviluppo ed interpretazione personale.

“VII – Kenoma” è quindi un disco che funziona innanzitutto per il veicolo d’immagini potentissime, quasi rivelazioni assolutamente struggenti e che tuttavia non giungono curiosamente mai in un rapporto di estemporaneità, bensì sempre come provvisori punti d’arrivo in stazioni metafisiche del sensibile, lasciando continuamente la possibilità di una replica che le possa arricchire all’infinito nel dialogo privato con il fruitore, nel rapporto assolutamente fluido tra ciò che l’ascoltatore sente e nel mentre ascolta; l’astrazione meditativa inclusavi è sicuramente personale, priva di una codifica esternamente comprensibile o sterilmente studiabile ma pregno di un ritualismo puro che -ciononostante- ne avvolge i movimenti in una coerenza stilistica stringente che non limita la creazione di visioni infinite da una cosmogonia all’altra, ma anzi la stimola con fertilità pluviale. Così, coloro che in antimateria ed atmosfera oggi, con il loro quarto full-length, superano tutti gli altri nel loro genere, nel puro terrore verso la scoperta dell’aldilà e del sacrificio da compiersi al di qua, realizzano un lavoro estremamente colto, musicalmente e concettualmente, artisticamente ricco, fatto di messaggi oltre le parole, che si ascolta con l’anima o non si ascolta affatto per rispetto dovuto verso una delle opere più grandi e profonde messe in musica negli ultimi anni: arte totale dalla enorme forza spirituale e trascendente, di quella morte in cui tutto il corpo e l’essere viene tolto e nella cui rinuncia viene donato il favore del tempo e dell’eternità. Più che il riflesso, comunque fisiologico, di una grande fase nella parentesi di vita dei suoi creatori, l’effettivo eco di un’anti-epoca occidentale, di un dolore così grande che necessita di metafore e richiami religiosi da laici -peccato e grazia- per poter veicolare, per poter anche solo sfiorare la grandezza di quel male che lascia senza alcuna parola adatta a descriverlo, che stordisce ed esalta nelle sue possibilità d’infinita forza. E di fronte a quel male, poter assaporare infine il fallimento in entrambi i mondi: la contraddizione che sta alla base della teodicea come elemento profondamente creativo e forse essenziale alla vita, l’incomprensione e l’accettazione consapevole come formulaico alla libertà personale di frommiana memoria che non prescinde né il viaggio né la domanda – al contrario. L’accesso è indiretto, come quello all’infinità oltre la morte, esclusivo allo spirito aperto senza riserve: aperto alla fine, al tormento, alla gioia – aperto e morente, fermo e nondimeno beato nella luce velata della convinzione che (vere tu es Deus Absconditus!) la rivelazione di Dio è direttamente proporzionale al suo grado di occultamento. Ma quella luce, quella dei Fyrnask tanto impossibile all’ascolto da considerarsi umana, è del resto divina.

“– Che sia impossibile sapere? Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, preghiere sussurrate, incomprensibili miracoli; perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? […] Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi: voglio la certezza, voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli.

– Il Suo silenzio non ti parla?”

Matteo “Theo” Damiani

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